MI18 - 150 - Reperto ritrovato sulle cime di Ceremana
Granata inesplosa
Reperto ritrovato nell’estate del 1975 da Lucio e Franca Del Corona (genitori dell’intervistato) a ca. quota 2600 metri sulle cime di Ceremana (Lago Rai, Val di Fiemme).
Non si hanno informazione aggiuntive sul reperto, se non che è databile 1916
CONTRIBUTOR
Marco Del Corona
DATE
1914 - 1918
LANGUAGE
ita
ITEMS
1
INSTITUTION
Europeana 1914-1918
PROGRESS
METADATA
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Memorie sulle campagne di guerra 1915 - 1918
13 Items
Un piccolo scritto del nonno Egisto Favilli sulle sue memorie di guerra. || Memorie di Egisto Favilli. La guerra ebbe inizio per me, nel dicembre 1915 ed il servizio militare finì, col congedo, a fine dicembre 1919. Sono appartenuto a molti reparti, come risulta dal foglio matricolare in mio possesso, ed ho preso parte a sette delle battaglie dell Isonzo dalla sesta alla dodicesima. Soldato di leva, fui assegnato al 35Q Reggimento Fanteria (Bologna) e trascorsi alcuni mesi forse 2 (due) nelle campagne di Budrio, sempre sotto la tenda, durante il periodo delle esercitazioni. Fui poi assegnato alla costituenda Brigata Campobasso (229° e 230° Fanteria), e precisamente al 1 e Battaglione del 229° ,in qualità di portaordini. Il battesimo del fuoco l'avemmo sul Sabotino. A quell'azione prendemmo parte come rincalzo e conquistammo la vetta (quota 609) consolidandoci sul posto. Prendemmo centinaia di prigionieri con molti ufficiali superiori: gli austriaci stavano asserragliati dentro munitissime gallerie preparate da tempo e che contene¬vano un imponente armamento. A quota 609 del Sabotino fui successivamente ferito durante un cannoneggiamento. Immediatamente passammo l'Isonzo, attestandoci sulle immediate pendi ci dei Monti Santo e San Gabriele. La sorte volle però che il rrllO Battaglione fosse inviato sul Podgora (ora Calvario dove si sviluppò un aspro combatti¬mento) e nei giorni 7, 8, 9, lO agosto 1916 prendemmo parte alla battaglia per la conquista di Gorizia. Varcata la vetta del Padgora, passato il sottostante Isonzo e quindi la città, ci attestammo sul Vertoiba, insieme, naturalmente, a molti altri reparti. La conquista del caposaldo Podgora fu merito so¬prattutto dell'H, 12°,27 e 28° Regg. Fanteria, ed altri reggimenti, tra i quali il mio 229° - citati ora nella Japideeretta sul monte a ricordo dei combattimenti. A Venoiba, dopo che avevamo riordinato e rinforzato i reparti, avvenne una nuova, sanguinosissima battaglia nel tentativo di avvolgere tutto il Carso, ma durante vari giorni non potemmo far altro che rimanere inchiodati sulle posizioni di partenza. Il mio battaglione, che contava 550 uomini di linea, fu completamente distrutto. All'appello dopo le azioni risposero soltanto 27 soldati ed un sergente. Gli ufficiali erano tutti caduti insieme ai soldati dispersi. Tra essi c'era anche mio cugino Gaspero Favilli, che poi sapemmo prigioniero. Riformato il Battaglione, raggiungemmo la nostra Brigata alle prime pendici del San Gabriele e del Santo. Rimanemmo in linea per circa Il mesi, dandoci il cambio ogni mese con altri reparti. Andavamo al cosidetto riposo sulle pendici del Sabotino dove in uno dei riposi fui ferito. Il Monte Sabotino era gremito di nostre batterie di artiglieria di grosso calibro ed in quel momento i nostri cannoni rispondevano al fuoco nemico. Ero insieme ad altri commilitoni in una baracca per il mio turno di riposo mi stavo scaldando alla stufa posta nel corridoio, quando non so se per un colpo nemico o per una serie di nostri colpi che avevano l'effetto di un terremoto sul nostro rifugio, il muro a secco di sostegno cedette, uccidendo una decina di miei commilitoni che si trovavano al piano inferiore. Mi salvai per miracolo riportando una ferita in testa e ustioni alle mani cadendo addosso alla stufa. Tornato in servizio con i miei compagni ogni notte dalle retrovie, dal¬I'imbrunire all'alba, passavamo l'Isonzo a Salcano, rifornendo le prime linee di reticolati, cavalli di Frisia ed altro materiale. Fatiche e disagi tremendi! Nella stagione invernale e nei periodi di pioggia i nostri vestiti erano impregnati di acqua, impastati di terra rossastra. Le scarpe di cuoio erano diventate come scarpe di gomma, ci sguazzavamo dentro. In trincea e nei camminamenti, correva l'acqua all'infinito. Quando era¬vamo in riposo in seconda linea a volte potevano dormire, più che altro di giorno, in piccoli rifugi scavati da noi stessi nella terra delle doline nei punti in cui speravamo che la traiettoria delle cannonate nemiche non ci avrebbe beccato. Nel periodo degli undici mesi suddetti ci accadde anche di essere prelevati in tutta fretta e spediti a mezzo ferrovia o camion nel Veneto presso Verona; giunti là sapemmo che il nemico aveva sfondato le nostre linee di montagna nel Trentino. Non fummo comunque impegnati perchè il nemico venne arginato e le nostre posizioni furono consolidate. Tut¬tavia fummo trasferiti di nuovo sull'altipiano di Asiago e andammo in linea sul Monte Zebio, e poi sulle cime 11 e 12, per circa 40 giorni. Tornammo infrnenel nostro settore di fronte originario, sui Monti San Gabriele e Santo. Lì ci prepararono, senza che ne sapessimo nulla o quasi, per la grande battaglia della Bainsizza. Pian piano, con continue azioni frontali, riuscim¬mo ad aggrapparci sotto le vette su cui stavano gli austriaci. Stavamo in posizioni insostenibili, con spaventose perdite umane giorno per giorno. La zona, prima ricca di alberi e folta di bassa vegetazione, in breve tempo venne rasata dagli incessanti bombardamenti, fino a mostrare la roccia friabile caratteristica del Carso, nella quale ogni esplosione di proiettile originava un'infinità di schegge sassose che causavano disa¬strosi vuoti fra le nostre file. Da lassù avevamo una veduta stupenda e macabra. Vedevamo sotto di noi Solcano distrutto, Gorizia, il caposaldo del San Michele, gran parte del Carso e il corso dell'Isonzo a forma di serpente. La zona era contesissima. Continuamente i cannoni vomitavano il loro carico micidiale con uno spettacolo infernale, apocalittico. La notte era illuminata da razzi e fotoelettriche numerosissime, che scrutavano nel vuoto per individuare spostamenti di truppe e convogli di rifornimenti. Sui monti Sabotino, Podgora, Santo, San Grabriele, il nemico possedeva munitissirne caverne scavate profondamente nella roccia, contenenti tutti i servizi, cioè comando generale, alloggiamenti per la truppa, luce, acqua, cannoni di piccolo calibro, mitragliatrici. Esso da lassù faceva un fuoco incrocia¬to che rendeva le sue posizioni imprendibili. Comunque in una battaglia frontale preceduta da lunga ed intensa preparazione di artigleria, pochi fanti della nostra Brigata, e cioè di un battaglione del 230•, riuscirono a metter piede nel Convento distrutto del Monte Santo; ma nelle successive ore notturne furono ributtati nelle posizioni di partenza da un furioso contrattacco nemico. In quella azione una parte del 229• rimase fermo intrappolato tra i rottami di reticolati nemici proprio sotto la selletta di Dal tra Monte Santo edl il San Gabriele. Il comandante Mattrangelo era ancora a Cima Verde, mi chiamò insieme ad altro porta ordini incaricandoci di trovare e fissare il collezamento. La zona era battuttissima dal1'artigleria nostra e nemica, e distava diverse centinaia di metri dal resto delle nostre Truppe. Il varco che dovevamo attraversare era diventato un groviglio di rottami di reticolati in frantumi, comunque trovammo un buco battuto a piccolis¬simi intervalli da mitragliatrice nemica che era proprio piaz¬zata in caverna nella loro selletta di Dal. Mentre pensavamo come fare, il mio collega si prese una pallottola in faccia. li cuore mio batteva in bocca, chi mi diede la forza? Lo trascinai in qualche modo all'impazzata per camminamenti verso un posto di medicazione. Fu messo subito in barella e sparì. Ero più morto che vivo dalla paura, mi trattennero un pò, dandomi del cognac, ma pensavo a quell'ordine scritto da consegnare! Tornato al varco, riuscii a rotolarmi buttandomi in quel vallone cadendo su dei sassi ed erba altissima - una voce, chi va là? Era il capitano Bratti, a cui consegnai l'ordine scritto - , mi rifocillarono con il liquore e mi trattennero fino a buio pesto fecendomi calmare e rilassare. Potei ritornare conse¬gnando la risposta. La notte seguente però fui nuovamente incaricato (tu conosci la strada) di condurre una squadra di telefonisti a stendere i fili per i collegamenti tra i due reparti, cosa che fu realizzata in una nottata. Dopo due o tre giorni il rimanente di quel battaglione fu ritirato da Cima Verde. Ed eccoci all'ultima battaglia dell'Isonzo, la Bainsizza. Insieme con molti altri reparti, passammo l'Isonzo a Plava, con perdite gravissime di uomini. Entrammo nella valle fiancheggiando, sul rovescio, il Vodice, il Cucco, il Santo, metà del Santo Grabriele, avanzando fino all'inizio della foresta di Temova, nei pressi di una piccola chiesetta con qualche casa: Bite. Prendemmo moltissimi prigionieri, uffi¬ciali e soldati, che erano ormai accerchiati nelle gallerie del Monte Santo. La nostra permanenza in quella zona fu tremenda. Stavamo in campo aperto, senza ripari, sfmitidallefatiche,coi nervi distrutti. Oltre a tenere la linea, c'erano da fare molte altre cose, come cercare di ripulire la zona dai cadaveri nostri e nemici che seppellivamo dove potevamo, in fosse comuni scavate alla meglio. I rifornimenti? L'acqua? Il vitto? Quando venivano, se venivano, si trattava di coseinerarrabili. Soltanto di notte potevamo darci un pò da fare per rifornirei. Andavamo per mulattiere improvvisate, su piste sconosciute. Le cucine e l'acqua da bere stavano alle nostre spalle, sulla riva dell'Isonzo e distavano vari chilometri. Ci trovammo là, forse in attesa di un nuovo balzo in avanti? Eravamo stremati, moralmente disfatti, assenti dal mondo, senza percezione del tempo. Giorni, settimane, mesi passavano inesorabilmente, mentre noi aspettavamo una pallottola intelligente o una scheggia di granata che ci colpisse definitivamente. Eppure tenevamo duro. Poi venne il tremendo, quanto inaspettato, disastro di Caporetto. Eravamo distanti dall'epicentro dell'azione circa una quindicina di chilometri in linea d'aria e fummo investiti marginalmente perchè il nemico svolgeva un'azione avvol¬gente. Venne l'ordine di ritirarci e di proteggere la possibile ritirata della 3° Annata del Carso che era schierata alla nostra destra rispetto al fronte. Fummo tra gli ultimi reparti preposti a tenere contatto col nemico fino al Tagliamento. Ogni notte cercavamo di mantenere i nostri collegamenti spiegandoci a ventaglio e sparando con le mitragliatrici. Pioveva continua¬mente, le strade erano intasate da salmerie, cannoni e tanto altro materiale bellico, oltre che da molti civili con vecchi e bambini caricati spesso su carri trainati da buoi sui quali stava anche una parte delle loro masserizie. Era una tragedia da impazzire. Noi avevamo l'ordine di incendiare, se possibile con benzina, tutto quello che ci lasciavamo dietro: magazzini di grano, vettovaglie, vestiario, depositi di ogni genere, parchi di buoi e cavalli che non era possibile evacuare. Dovevamo insomma fare terra bruciata. Era facile per noi intuire l'ampiezza dello smacco subito. Per molti giorni in quella pianura veneta avvenne uno spettacolare incendio, da finimondo. Impiegammo circa una ventina di giorni per giungere al fiume Tagliamento e poi al Piave. Tutti i ponti, piccoli e grandi, erano tagliati e noi dovevamo passare i fiumi a guado o in cordata, in una confusione indescrivibile. Le poche volte che potei dormire, lo feci ai margini dei campi o della strada, zuppo di acqua, sporco di fango. Finalmente potei giungere al Piave quasi in stato di shock, con febbre altissima. Fui ricoverato in un ospedale da campo improvvisato per alcuni giorni; ma poi anche l'ospedale, al sopraggiungere del nemico, fu investito dal tiro di artigleria. Mi ritrovai così su un treno della Croce Rossa sul quale viaggiai per alcuni giorni, finchè . fui ricoverato in un ospedale a Pistoia. Lì rimasi circa trenta giorni a causa del forte deperimento organico, ma infine fui dimesso e inviato a Trapani al deposito dell'S'i' Fanteria. Da lì, dopo circa due settimane, tornai a Brescia ad un reparto di mitraglieri FlAT, poi ad un battaglione di marcia della So Divisione, infine alla 67 Compagnia mitraglieri St. Etienne, con la quale raggiunsi nuovamente il fronte, via Lecco-Sondrio-Bormio. Finimmo al confineAustria-Svizzera, ad una quota con tre zeri, 3cxx) m .. Su quei ghiacciai combattevano truppe di alta montagna, tutti alpini. Per noi poveri fanti, non abituati a quell'altezza e a quelle temperature, fu una tragedia. Fortunatamente i comandi capirono di doverci tra¬sferire su un fronte meno freddo, ma in ogni modo frnimmo lo stesso abbastanza in alto, al passo del Tonale, su Cima Cadì che era quasi sempre innevata. La cima, comunque, dominava la sottostante, unica strada e noi con quelle belle armi pesanti, le St. Etienne con raffreddamento ad aria, facevamo anche tiro indiretto e dominavamo buona parte del suo percorso. Le fatiche ed il freddo non mancavano, ma il fronte era relativa¬mente calmo, per me quasi una manna se ripensavo all'infernale tempo trascorso nella conca di Gorizia. Un mattino, all'alba, mi trovavo con altri di vedetta fuori dei reticolati. Ad un tratto il nemico cominciò a tirare una grande quantità di quei razzi che servivano per le segnalazioni. Impressionati, demmo l'allarme al nostro comando, dal quale ricevemmo la lieta notizia che il nemico aveva capitolato. Subito cominciammo ad avanzare e giungemmo sulla strada, dove si formarono due colonne di truppa che si incrociavano marciando in senso opposto: noi che andavamo avanti e loro che si arrendevano. Trapelava anche in loro (sebbene fossero sconfitti) un senso di contentezza irrefrenabile. Ricordo che davamo loro del pane, ed essi contraccambiavano con siga¬rette. Marciammo sempre avanti e per il Passo della 'Mendola, Merano, Bolzano, Bressanone, Fortezza, giun¬gemmo a Innsbruck. La mia compagnia mitraglieri, che aveva armi pesanti, possedeva muli e carrette. In quell'occasione fu ritenuta di rapido impiego e a marce forzate copri abbastanza agevolmente quella distanza di un centinaio di chilometri. Tornando a Fortezza - a guardia di una polveriera sotterranea austriaca. Poi cominciò la smobilitazione ma noi più giovani rimanemmo ancora sotto le armi. II nostro Corpo d'Armata istituì uno spaccio di generi alimentari a Merano ed a gestir¬lo prelevò, da vari reparti, tutti alpini (la mia compagnia di fanti si trovava tra loro, date le anni che avevamo) i tecnici (¬diciamo così - anche il sottoscritto) - per tale servizio. Fu formata così una squadra di 12 soldati ed un Caporale, interprete, con permessi individuali permanenti assegnandoci un villino, ed al comando di un Ufficiale. Lo spaccio venne aperto, bello e funzionale, nella promenade in città. Benchè richiedesse molto lavoro con responsabilità, trovammo rassicurante collaborazione, sere¬nità, piena libertà - ma in terra nemica: Ostile Alto Adige. Di notte spesso, stando sempre uniti, frequentavamo ritrovi e birrerie. Una sera capitammo in una grande birreria sedendo ad un tavolo, vi erano altri, alpini che bevevano birra, ed affollatissimo di giovani vospartai che facevano molto chiasso. Ad un certo punto questi principiarono, in lingua tedesca, ha sparlare con baldanza su di noi e l'Italia. TI nostro caporale a questo punto si alzò dal tavolo reagendo alle loro offese sporche ed importune.In un attimo nacque una furiosa rissa dove avemmo la meglio. Dal nostro comando non ricevemmo nessun richiamo disciplinare. Vendevamo soltanto alla popolazione civile af¬famata facendo incassi giornalieri fortissimi in corone au¬striache. Fui congedato da quella località alla fine di dicembre del 1919. La brigata di fanteria era composta di 2 reggimenti, cioè di 6 battaglioni con 6 compagnie di mitraglieri (con 4 anni ciascuna) e 2 compagnie zappatori. Le truppe di linea erano costituite da circa 550 fanti per ogni battaglione. Gli altri uomini costituivano salmerie, cucine ed altri innumere¬voli servizi. Complessivamente la brigata aveva circa 6000 uomini, dei quali circa 3300 di prima linea. EGISTO FAVILLI Classe 1896 (16 Luglio)
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